Costretti a piedi dal virus, nei mesi più bui della quarantena, ogni occasione era buona per parlar di cavalli, visto che non ci si poteva andare. Allora tra noi di HorseTouring avevamo iniziato un gioco abbastanza avvincente – tenuto conto delle scarse alternative di quel periodo, e abbiamo pensato di riproporlo a tutti gli appassionati come passatempo: rintracciare nel linguaggio comune i modi di dire provenienti dal mondo equestre.
A differenza di qualunque altro sport o passatempo, infatti, l’origine dell’equitazione è intrecciata allo sviluppo della civiltà umana. Si può dire che l’uomo abbia percorso il cammino della civiltà a cavallo, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale. In questo lungo percorso centinaia di parole, espressioni, proverbi sono passati dalla pratica equestre al linguaggio comune.
Ne pubblicheremo uno alla settimana scritto da noi o inviato da voi: scriveteci quelli che vi vengono in mente. Non si vince niente, ma avrete la gloria e il plauso della community di HorseTouring!
Dizionario fatto in casa dei modi dire di origine equestre
“A briglia sciolta” per intendere procedere precipitosamente, sfrenatamente. Il riferimento è intuitivo: la corsa di un cavallo lasciato senza controllo (e presumibilmente non addestrato col metodo Parelli).
“A caval donato non si guarda in bocca” vuol dire che se ti regalano qualcosa non devi fare il sofistico, diffidare o criticare e giudicare. Come fa(ceva) invece l’acquirente sgamato di un cavallo, che ne valutava l’età esaminando la bocca. Inclinazione dei denti, colorazione e segni caratterizzano in modo abbastanza preciso l’età dei nostri amici, infatti.
“Il bicchiere della staffa”, intuitivamente l’ultimo bicchiere bevuto prima della partenza, quando già si aveva il piede nella staffa per montare a cavallo.
“Campa cavallo che l’erba cresce”, in origine significava la necessità di portare pazienza e non perdere la speranza: lo stremato equino veniva invitato a non cedere – a non morire – che prima o poi l’erba sarebbe cresciuta e avrebbe potuto mangiare e riprendersi. Sono evidenti l’origine e la mentalità rurale del proverbio (rassegnata ai tempi lunghi e ai capricci della natura); in epoca più recente, il suddetto equino deve essersi sentito preso per i fondelli – alla fine – tanto che il proverbio ha dato luogo alla frase fatta “Campa cavallo!”, ironica, che significa appunto l’aspettativa di un’attesa lunga e inconcludente.
Curiosità – anche questa legata all’origine rurale del proverbio: in Veneto il cavallo diventa un asino: “Speta mus che l’erba cressi”.
“Perdere le staffe”, segnalato dal Ranch Scanno significa spazientirsi, arrabbiarsi. Sono stati d’animo in cui si perdono il proprio equilibrio emotivo ed il controllo di sé, esattamente come il cavaliere che perde le staffe, perde l’equilibrio fisico ed il controllo del cavallo.
Insomma, significato intuitivo; tranne che per antichi greci e nativi americani che non sapevano cosa diavolo fosse una staffa, ma stavano a cavallo divinamente (però si spazientivano e arrabbiavano pure loro).
“Cavallo di battaglia”, è un’espressione usatissima per indicare il settore, l’ambito di attività o la specialità in cui qualcuno eccelle o in cui si esercita più volentieri e con successo. Ovviamente fa riferimento ai molti secoli durante i quali l’arma strategica in guerra era la cavalleria, e i cavalli destinati alla battaglia erano i migliori, i meglio armati, i meglio addestrati e i meglio difesi.
“Correre la cavallina”, decisamente vintage, l’ultimo che abbiamo sentito usare questa espressione era un vecchio zio, che la applicava a uomini dissoluti ed infedeli, da lui tanto disprezzati quanto invidiati da noi nipoti. Vuol dire darsi al piacere, soprattutto sessuale, senza freni né scrupoli per i legami matrimoniali propri e altrui. L’origine non si sa bene quale sia, ma già la usava Boccaccio nel Trecento (correre le giumente).
“Darsi all’ippica” è un’espressione che oggi è prevalentemente usata in tono prescrittivo e spregiativo (Datti all’ippica!) per invitare qualcuno a cambiare attività o mestiere per incapacità o negligenza.
L’origine più probabile risale al periodo fascista, quando Achille Starace – forse il più invasato dei dirigenti del partito – giunto in ritardo a un convegno scientifico presso Padova, invece di scusarsi argomentò che proveniva dalla sua irrinunciabile cavalcata quotidiana e invitò gli astanti a trascurare i libri per darsi all’ippica. Nel tempo l’espressione, divenuta proverbiale, perse il suo significato originario di disprezzo della conoscenza in favore del suo opposto, probabilmente influenzata dalla grottesca cialtroneria del suo autore.
Altri attribuiscono l’origine del detto ad alcuni versi celebri di Giambattista Marino – il Vasco Rossi del 1600 – che sfottendo il poeta rivale Gaspare Murtola scrisse:
È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir, vada a la striglia.
Che più o meno vuol dire: “Se sei un poeta scarso datti alla striglia”. Da andare alla striglia a darsi all’ippica secondo i sostenitori di questa tesi il passo è breve.
Resta da segnalare che il Murtola non la prese benissimo e il primo febbraio 1609 sparò un colpo di archibugio al Marino, mancandolo e colpendo l’incolpevole amico di questo, Ettore Braida. Forse avrebbe dovuto darsi all’ippica.
“Il mio regno per un cavallo”
Questa invocazione significa una condizione di disperato bisogno, tanto da essere disposti a privarsi di tutto pur di trovare una soluzione. L’espressione, che nell’originale inglese suona: “A horse! A horse! My kingdom for a horse!” viene pronunciata dal re Riccardo III nell’omonima opera teatrale di Shakespeare.
Riccardo III per conquistare il regno e diventare Re aveva tramato per tutta la vita, facendo rinchiudere parenti, tradendo amici e uccidendo una nutrita schiera di possibili avversari e contendenti, inclusi sua moglie e i suoi figli. Aveva dunque una certa affezione per il suo regno; ciononostante, giunto alla battaglia finale, vedendosi disarcionato e senza speranza è disposto cederlo per un cavallo.
Eh, sì, perché a quei tempi possedere un cavallo poteva essere questione di vita o di morte. Per noi non è più così, ma ci rimane la potente espressione di Riccardo disperato, divenuta un modo di dire.
“Essere a cavallo” significa aver raggiunto uno scopo, trovarsi in una situazione favorevole dopo aver
superato delle difficoltà.
L’origine di questo modo di dire risale alla formazione degli eserciti nell’antica Roma e in seguito nel Medio Evo. Per accedere alla cavalleria, infatti, occorreva possedere i mezzi per acquistare e mantenere un cavallo, bene assai costoso in quei tempi. Una volta raggiunto questo obbiettivo, la strada verso il benessere era spianata, poiché ai cavalieri spettavano maggiori benefici. Nel tempo questo rango militare superiore diede origine a vere e proprie classi sociali privilegiate: gli equites nell’antica Roma – inferiori solo alla classe senatoriale – e, più tardi, i cavalieri medievali. I quali se nell’alto Medio Evo (cioè quello più antico) furono un ceto di bassa nobiltà, nel tempo acquisirono prestigio e alimentarono l’ideale cavalleresco, ancora oggi a associato a coraggio, lealtà, disinteresse, nobiltà d’animo.
“Cavallo Vapore” (CV o HP) non è un modo di dire ma un’unità di misura pratica della potenza. Questa misura, infatti, in Italia è stata estromessa per legge nel 1982 e non è riconosciuta dal Sistema Internazionale, che utilizza il Watt (W). Ciononostante, nel mondo dei motori si continua allegramente ad usarla per la sua immediatezza di comprensione. La misura del cavallo vapore fu inventata verso la fine del ‘700 da James Watt per far comprendere in modo intuitivo ai suoi clienti la capacità di lavoro delle sue macchine a vapore. La potenza di una macchina era cioè espressa con il numero di cavalli che esse erano in grado di sostituire nel lavoro. Watt calcolava che un cavallo da tiro – durante il suo turno – era mediamente in grado di tirare un peso di ca. 75 kg alla velocità di un metro al secondo. In realtà la potenza massima che un cavallo può produrre per un periodo di pochi secondi è di quasi 15 cavalli vapore; ma su un turno di dieci ore tale capacità corrisponde effettivamente a un cavallo vapore. Tanto per capire di cosa sono capaci i nostri amici quadrupedi, un uomo produce una potenza di picco di 1,2 CV, ma è in grado di produrre a lungo solo 0,1 CV; il fenomeno Usain Bolt, nel suo record del mondo dei 100 metri, ha toccato una potenza massima di 3,5 cavalli vapore per qualche decimo di secondo.
“A buon cavallo non manca sella” Quando una cosa è buona, non manca mai chi l’adopererà. Un bello e vigoroso destriero sarà sempre molto ricercato. La verità di questo proverbio la conoscono per dura prova i buoni cavalli delle scuole di equitazione, sempre ricercati e preferiti dai giovani allievi.